Lo scrittore scende in campo: Tails
Quanto è importante che l’autore si metta in campo nelle sue opere?
Secondo Francesco Codenotti, autore della saga “Le Sette vie del Drago”, la risposa sarebbe che è cruciale che questo avvenga. Fin dal primo libro, infatti, si vede come lo scrittore sia una figura importante, che compare nella storia attraverso brevi intermezzi dedicati proprio alla sua figura. Questa scelta mi ha molto affascinato, perché mi è sembrato di potermi appoggiare sulla spalla di Francesco e sbirciare cosa stesse scrivendo, ho avuto l’impressione di essermi intrufolata nella sua stanza a guardarlo creare il suo mondo un po’ più da vicino rispetto a quello che avrei potuto fare semplicemente leggendo il libro.
Tuttavia, quando si passa al secondo volume della saga, “La scelta”, la presenza dello scrittore si accentua, tanto che esso non resta una figura ai margini della narrazione, ma diventa un vero e proprio personaggio della storia. Questa crasi scrittore-personaggio crea paradossi interessanti: il personaggio per così dire compenetrato dallo spirito dello scrittore si scopre creatore del mondo in cui sta vivendo, ma allo stesso tempo, calandosi nella storia in prima persona, ha perso la facoltà di modellare il suo universo, può cambiare le cose solo per mezzo delle sue azioni e non più tramite la sua fantasia. Ho visto in questa scelta narrativa, oltre ad un elemento molto originale, una metafora di quello che avviene scrivendo un libro: a poco a poco, se ha fatto un buon lavoro di caratterizzazione, è come se i personaggi prendessero vita al di fuori di quella che è la volontà dello scrittore, che finisce semplicemente per essere un mezzo di espressione di quello che è lo sviluppo naturale, quasi autonomo, dei personaggi che ha creato.
Interrogato riguardo alla sua scelta, Francesco risponde: “È la mia volontà di mettermi in gioco in prima persona, soffrendo, gioendo, piangendo insieme ai miei personaggi e ai miei lettori“. Per quanto riguarda il messaggio che voleva passare con questa decisione, ci spiega che “Come nella vita, non possiamo muoverci sempre nelle retrovie. A un certo punto, dobbiamo scendere in campo. Ed è questo che accadde nel secondo libro. Dobbiamo prendere in mano le redini del nostro destino e diventare ciò che è necessario che diventiamo, abbandonando l’effimera sicurezza di una scrivania. Pensiamo di sapere tutto, ma così non è. C’è sempre quel qualcosa che ci sfugge, ed è necessario che capiamo che cos’è. Ecco perché a un certo punto Lo Scrittore scende in campo davvero.“.
Una volontà quindi di mettersi allo stesso livello dei suoi personaggi, abbandonando il piedistallo imposto dal ruolo di autore ed agendo in prima persona tra le sue pagine. Una scelta quasi umile, di profondo rispetto del mondo creato dalla sua stessa penna, ma anche una scelta coraggiosa, perché si sa, ad uno scrittore la sicurezza della copertina di Linus costituita dalla scrivania e dallo schermo del computer tende a piacere molto.
Questo potrebbe aprire un interessante dibattito su un tema abbastanza caldo: si può distinguere un’opera dal suo autore, e un autore dalla sua opera? Io, personalmente, non credo. Posso ovviamente distinguere un autore dai suoi personaggi, da quello che i personaggi fanno, pensano e dicono (se scrivo di un personaggio egoista, non è detto che io autore sia a mia volta egoista), ma la cosa diventa più difficile quando si parla del messaggio di un’opera, di qualsiasi genere essa sia. Quello che una storia comunica, la sua morale, se così vogliamo chiamarla, non può non essere cara all’autore, che ha impiegato tempo, sudore e lacrime per comporre qualcosa che comunicasse un messaggio. Ed ecco che il ruolo, la responsabilità dell’autore si propaga ben dopo che l’ultima pagina è stata scritta, diventando quasi un dovere di rispettare quello che si è comunicato ai lettori.
Francesco, a quanto pare, sta prendendo questa responsabilità molto sul serio: lui è sceso in campo.